Circolarità ritmica e unità organica nel canto di Maud Robart
Intervista a cura di «Biblioteca Teatrale»
PARTE I
Angelo Tripodo, a partire dalla sua esperienza di artista, percussionista ed educatore, cosa considera essenziale nell’approccio al canto rituale afro-haitiano introdotto da Maud Robart e cosa questo lavoro apporta di peculiare nel contesto della cultura moderna?
Ai suoi allievi Maud Robart offre la possibilità, attraverso il suo approccio al canto tradizionale, di percepire il rapporto fra ritmo e melodia, reintegrandone, nella dimensione spazio-temporale dell’esperienza, l’unità organica. Considero essenziale l’opportunità offerta da tale approccio di sperimentare che la separazione fra ritmo e melodia nella concezione musicale dell’Occidente, è artificiosa.
Nella cultura corrente, infatti, il ritmo è inteso come scansione lineare di pulsazioni regolari nel tempo
Dalla rappresentazione (fig. a) di un segmento (battuta di 4 movimenti) di questa linea ipoteticamente infinita, si deduce una concezione che incoraggia la dimensione del viaggio, dello spostamento da un luogo all’altro della mente, accordando grande attenzione al punto di partenza e a quello di arrivo. Un’intenzione tutto sommato molto utile, fin quando essa serve a far uscire l’arte musicale da dannosi circoli viziosi, ripetitivi ed autoreferenziali.
Dal punto di vista della mia esperienza di artista-musicista ed educatore, se da un lato tale concezione può certamente aiutare nel dare ordine alle cose, consentendo di fermare su carta le frasi musicali, dall’altro essa concorre, sfortunatamente, a creare una cultura che ignora il valore dei cicli ricorsivi, propri delle musiche tradizionali (riff – pedali – ostinati, ecc.), relegandoli nell’ambito della ripetitività statica. Il misconoscimento del potere generativo dei cicli ricorsivi nella musica è, secondo me, imputabile in larga misura proprio a questo solco tracciato fra ritmo e melodia. Questa scissione trasforma il ritmo in una griglia di riferimento esterna alla musica, sovrapponibile alla partitura in maniera analoga all’utilizzo della rete di meridiani e paralleli nelle mappe geografiche.
Il tempo diviene così e sempre più una dimensione teorica, non necessariamente ancorata all’esperienza del suonare. In tal modo, lo spazio tra i punti (le scansioni) finisce per scomparire quasi completamente dalla griglia di riferimento (il ritmo); e, paradossalmente, questi punti che non fanno più parte della musica, rimangono l’unico elemento concretamente empirico del ritmo.
Il lavoro di Maud Robart permette all’allievo di riempire di sé – attraverso respiro, movimenti del corpo e suoni – quello che, nella cultura corrente di tipo occidentale, è divenuta vuota interruzione.
In questa concezione il tempo, inteso come una griglia di riferimento, finisce per assumere, infatti, una funzione di misura e di controllo che interferisce con la vitalità della melodia.
Quando Maud Robart propone un canto, pone l’accento sulla sua articolazione interna e utilizza la sospensione per ritrovare consapevolmente la dinamica organica del movimento. Questa dinamica al tempo stesso genera e permette di comprendere l’equilibrio mutevole e preciso tra la melodia e il ritmo, fra lo spazio e il tempo (è questo, può darsi, ciò che Maud chiama «l’anima del canto», bisognerà chiederglielo…).
Scopriamo così una precisione che nasce dall’imparare ad ascoltare il nostro ritmo interno e dalla sua relazione con tutte le articolazioni del canto, rimanendo rigorosamente “a tempo”, senza la necessità di una pulsazione esterna di riferimento. La scansione si trasforma in un flusso, in una zona d’equilibrio dinamico in cui si sperimenta quella danza creativa fra particella e onda che tanto ha tenuto occupate e che ancora impegna le menti di scienziati ed artisti moderni.
L’importanza di questo lavoro nel contesto culturale moderno risiede, secondo me, in questa possibilità che esso offre di scoprire e attualizzare la conoscenza sottesa alla ripetitività della musica tradizionale. La ricerca di Maud Robart sfata, a mio avviso, il luogo comune secondo il quale la circolarità è solamente accogliente, materna; o ancora utile, quando essa funziona, per aiutare a ritrovare i valori ancestrali legati ad un’istintività primordiale. Questa concezione, non riconoscendo alla nozione di circolarità le sue qualità dinamiche, attribuite, invece, esclusivamente al pensiero logico-razionale, la relega così nel ghetto dell’autoreferenzialità.
Il punto nodale, che permette di fare questo salto di qualità – dalla mera ripetitività alla consapevolezza del valore generativo e dinamico della ripetizione – sta proprio nello spostamento, in quel piccolo, quasi impercettibile, movimento che pone l’accento fuori dal punto di appoggio (il battere), un po’ prima o un po’ dopo, lì dove il movimento ha inizio. Si tratta del mettersi in moto nell’unica maniera che la Natura ci ha dato per durare nel tempo, quella dell’alternanza fra tensione e rilassamento. Non sono dei circoli chiusi ma dei cicli ricorsivi multipli che si danno il cambio e si stimolano l’un l’altro producendo onde complesse, ora più ora meno arcuate, luoghi di sospensione, di momentanea calma o di squilibrio e di rilancio. Il movimento è complesso, multidirezionale nello spazio e nel tempo e non è più, quindi, uno spostamento lineare inesorabile da un prima a un dopo, da un inizio a una fine, da un passato a un futuro.
Provando a riprodurre l’immagine del nostro segmento iniziale lo potremmo trasformare in questo modo: da fig. a1 a fig. b.
A chi obiettasse che seguendo il disegno (a) si va da qualche parte, mentre seguendo lo schema (b) si rimane sempre nello stesso posto, rispondo:
Il primo spostamento ci indica un viaggio, senza dire niente però su chi viaggia e con quale energia. Il secondo ci dice, invece, come potersi mettere in movimento e come poter trovare l’energia per farlo. Ci parla, dunque, della possibilità concreta del mettersi in viaggio.
Probabilmente saremo veramente in grado di comprendere il primo schema, solo quando avremo capito come funziona il secondo; o meglio, il secondo schema potrà aiutarci a comprendere che cosa accade in ognuno degli infiniti punti del primo.
PARTE II
Lei ha osservato il lavoro di Maud Robart più volte; cosa le piacerebbe esprimere spontaneamente riguardo alle sue personali impressioni?
Prima di tutto parlerei della relazione con il luogo. La prima volta che Maud mi ha invitato ad assistere al suo lavoro, sono stato accolto da un silenzio luminoso e attento. Non vi era stata alcuna violazione, alcuno stravolgimento, tutto era diverso ma, al tempo stesso, nulla era cambiato, in uno spazio che io conoscevo bene. La prima sensazione è stata quella di una restituzione, come se il lavoro condotto da Maud nei giorni precedenti, avesse reso percepibile la struttura di quel luogo, il rapporto esistente fra le pareti, il pavimento, il tetto, gli oggetti al suo interno e l’aria che lo riempiva. Si avvertiva una cosa per me molto rara e preziosa: era possibile ascoltare il suono del silenzio. I corpi, i movimenti, le voci e i canti hanno iniziato, quindi, a lasciare tracce d’immagini e di suoni, che dal silenzio emergevano e nel silenzio defluivano, aiutando ancora di più a percepirne il suono, così come accade quando un albero o una nave lungo la linea di un orizzonte, per contrasto, mettono in evidenza la profondità.
«Ascoltare il silenzio»?
Come ho già detto, la cosa fondamentale è stata che il silenzio esisteva, in quanto concretamente percepibile. Non era assenza di suono ma il silenzio di quel luogo, in quel momento, con quelle persone all’interno. In ogni luogo, sia nella natura sia dentro edifici costruiti dall’uomo, se un gruppo d’esseri viventi riesce ad essere veramente insieme, senza colmare subito lo spazio di suoni, si crea una tensione generativa che permette di udire il suono del silenzio. Anzi, basta fermarsi ancora un poco per capire come questa tensione, fremente d’attenzione e insieme pacata, è essa stessa il silenzio: di quello spazio, in quel momento e con quelle persone. Mi sembra che Maud Robart ogni volta costruisca con i suoi allievi questo silenzio attivo e da esso faccia emergere il movimento e il canto, comunicando dall’inizio, a chi lavora con lei, come ogni atto creativo nasca in quei luoghi nei quali si fondono la percezione di noi e del mondo, l’immagine che ce ne facciamo e il ricordo.
Lo spazio è dunque molto importante per un musicista?
Lo spazio è al tempo stesso il luogo fisico e mentale nel quale avviene l’azione del suonare. Il musicista, il compositore, l’improvvisatore o l’esecutore, devono imparare a percepirlo, ad immaginarlo, a misurarlo e, se necessario, a svuotarlo o riempirlo d’impressioni, di esseri viventi, di oggetti, ecc. Avere coscienza dello stare in un “luogo” rende concreta l’esperienza del suonare e consente di percepire il tempo in maniera altrettanto concreta, come relazione fra il movimento e lo spazio.
In che termini parlerebbe di questo lavoro rivolgendosi a un musicista di formazione “classica”?
In primo luogo, gli parlerei di tutto quanto ho appena detto; proverei a spiegargli, in seguito, come il lavoro di Maud Robart, ponendo una relazione chiara e inscindibile fra movimento e suono, dà la possibilità di sperimentare un modo di stare nella musica che ricostituisce la concretezza dell’azione del suonare e fornisce strutture e territori tangibili al processo creativo, rimettendo in comunicazione l’immaginazione e l’atto.
Lei pensa che questa ricerca possa essere effettivamente utile al lavoro di artisti, musicisti e ricercatori formati nella cultura moderna?
Maud Robart si muove e canta dando vita ad una serie continua d’onde circolari, ripetitive, generative. Utilizza la sincope per far nascere il suono, non per frammentarlo. La sospensione che ne deriva non produce interruzione del moto, al contrario diviene punto nodale, centro catalizzatore di nuove articolazioni melodiche. Come musicista, ho avuto modo, quindi, d’assistere ad un lavoro che porta verso un rapporto organico con il ritmo, poiché, spostando l’attenzione all’interno della frase ritmico-melodica, esso dà la possibilità di stare nel “tempo” senza avere bisogno necessariamente di un riferimento esterno.
L’utilità fondamentale del lavoro di Maud Robart si situa, secondo me, nella possibilità, che esso offre, di sperimentare la funzione generativa di tutta una serie continua di cicli ricorsivi.
Ricostruire l’unità di mente e corpo diventa un’esperienza concreta, fondata su una tradizione antica, rigorosa ed esente dai pericoli d’ogni romanticismo e dagli esotismi alla moda.
Quale differenza immediata lei osserva tra “lo spirito del ritmo” proprio a questo tipo di approccio del canto rituale afro-haitiano e la concezione corrente del ritmo percepibile nella musica in Occidente?
Nel momento in cui si percepisce e si costruisce insieme il suono del silenzio, diviene possibile udire anche il più piccolo gesto non perché esso suoni in sé, ma in quanto altera il movimento del silenzio.
Il vero ritmo nasce come spostamento tangibile nel tempo, all’interno di uno spazio vivente. Creare una griglia di pulsazioni regolari può ancora rivelarsi utile se sentiamo il bisogno di misurare, di verificare, ma non serve a generare il canto.
Maud Robart crea ogni volta un percorso che sembra già esistere nel silenzio, così come fanno gli artisti orientali quando cercano nel foglio bianco il disegno. Il segreto è nello spostamento che porta continuamente l’energia al di fuori del centro e genera una danza che trova il suo equilibrio solo nel movimento e nella quale, quasi mai, gli accenti sono posti sopra i punti di appoggio.
La differenza, quindi, rispetto alla concezione corrente del ritmo in Occidente, risiede nel fatto che il canto in Maud Robart vive del proprio ritmo interno, quello che nasce dall’articolazione della frase melodica in relazione al movimento, senza alcun bisogno di rapportarsi ad una griglia di riferimento esterna ad esso.
Guardando Maud Robart cantare, su quali elementi specifici si sono basate le sue osservazioni per descrivere la relazione concreta tra il suono e il movimento?
Parlare di questa relazione nel lavoro di Maud Robart equivale a discutere ancora del suo modo di concepire il ritmo.
Ho visto Maud Robart cominciare molto spesso con dei piccoli movimenti dei piedi e del bacino che vanno a defluire nelle spalle attraverso la colonna vertebrale. Si tratta di un solo movimento complesso quasi impercettibile e sempre contro-laterale, generato dallo spostamento del peso o sul piede destro o sul piede sinistro.
Quando il piede destro si alza lievemente e il peso si scarica sul sinistro, ho l’impressione che si liberi un impulso che mette in movimento l’anca sinistra e, rimbalzando su questa, attraversi il tronco per uscire dalla spalla destra, che si solleva leggermente. Se è il piede sinistro a sollevarsi, l’impulso mette in movimento l’anca destra e defluisce dalla spalla sinistra.
L’essenza e il nodo della scienza, della coscienza profonda della sincope nel canto di Maud Robart sembra nascere proprio da questo “flusso incrociato”, che dispone il corpo a percepire, lo rende pronto per l’azione e la reazione. È un ritmo in cui la sincope non può essere un’interruzione, ma “luogo” del disequilibrio, che genera l’equilibrio dinamico del movimento senza bloccare mai l’azione su dei punti d’appoggio fisici e mentali (per esempio, “il battere”).
Cosa ha significato per lei “osservare”, essere testimone?
Sono arrivato nello spazio di lavoro già pieno di tutte le storie meravigliose che mi avevano descritto i membri di un gruppo di stagisti regolari di Maud Robart. Ero, da un lato, un po’ timoroso di non riuscire a mantenere un ascolto attento e discreto e dall’altro un po’ sulla difensiva rispetto al grande rigore nella forma che, anche a noi testimoni, era stato richiesto (dovevamo essere come gli altri, a piedi scalzi e vestiti di bianco). È stata un’esperienza straordinaria e sono quasi subito scomparsi sia il disagio sia le difese.
Quando Maud Robart lavora con i suoi allievi, o ci si sente partecipi, o ci si ritrova automaticamente fuori. Ho provato a poco a poco un forte sentimento d’empatia nei confronti di tutti, ma quello che ricordo con più chiarezza è stata la generosità e la fatica di una bella signora in bianco che, mettendosi in gioco senza alcuna remora, provava a chiamare, dentro un mondo nuovo e pieno di misteri, alcuni giovani per certi versi ancora incongrui ma desiderosi ed attenti nel corpo e nella mente.
Quale era la sua relazione con i partecipanti che lavoravano in quel momento?
Ho provato la gioia della condivisione e la malinconia verso un gruppo d’uomini e donne che mi sono sembrati, in quel momento, intrepidi, perché soli nell’universo, ma anche un po’ smarriti.
Come parlerebbe del legame tra i partecipanti al lavoro?
Come dei partecipanti ad un viaggio; ho sentito che esisteva tra loro una forte solidarietà, nata da una grande fiducia in una guida certa ma anche fonte di dubbi, di domande e di risposte, di tante risposte…
Angelo Tripodo*
* Musicista ed educatore, Angelo Tripodo fa parte del Giovanni Renzo Trio. Per l’Associazione La Ragnatela, cura il Laboratorio per diversamente abili Suono e Ritmo che ha al suo attivo collaborazioni con Paolo Fresu, Alessandra Giura Longo e altri musicisti interessati alla pratica dell’improvvisazione creativa. Con Giovanna La Maestra lavora alla realizzazione di performance e laboratori teatrali e musicali. È stato più volte testimone del lavoro di Maud Robart.