Oïda

Esiste un termine in greco antico:

Oida.

Lo si rende in genere con «so per aver visto».

Si tratta di un perfetto, cioè del tempo greco che indica un’azione compiuta che perdura nei suoi risultati.

La radice di Oida è indoeuropea[1]: vid (veid, void)[2] (allo stesso tempo vedere e conoscenza).

Da vid derivano parecchi termini greci che significano contemporaneamente vedere (nel vasto senso di: essere presenti, attenti, avere la vista, percepire) e sapere: così idea “idea”, eidema “il sapere”, eidesis “la scienza”, istoría “indagine condotta personalmente”.

Vid è anche la radice di video (latino), da cui vedere (italiano) e voir (francese). Nelle nostre lingue attuali, non si coglie più il rapporto di queste parole con la conoscenza, ed esse hanno finito per indicare unicamente, a meno di usi metaforici e occasionali, l’esperienza percettiva dell’organo visivo[3].

Il greco Oida rende in un unico respiro un processo che noi moderni esprimiamo con concetti eterogenei, tempi diversi e locuzioni più o meno articolate. In Oida l’esperienza e la conoscenza si mostrano in rapporto dinamico fra loro come vasi dall’origine comunicanti. E non dobbiamo farci ingannare dalla nostra rassicurante traduzione «so per aver visto» che svolge i tempi e li mette in ordine l’uno dopo l’altro; Oida, è un tempo passato usato in forma di presente perché considera come fatto non il frutto dopo il seme ma il frutto tutto intero, col seme dentro. È un termine che, in modo conciso ed efficace, suggerisce e porta la traccia di un metodo di apprendimento che non prevede risposte meccanizzate.

La mia esperienza con Maud Robart e i miei studi si sono incrociati in questa parola.

Parlare del lavoro di Maud Robart usando categorie di causa ed effetto è particolarmente difficile, perché difficile è separare questi due momenti nella sua pratica, ma il termine Oida rende conto, per una via alternativa a quella della narrazione, sia del carattere concreto, generativo dell’esperienza, sia della pur semplice intuizione necessaria per cogliere il “saper fare” congiunto all’“aver fatto”.

Oida si muove in una direzione diversa da quella del tempo comune secondo il quale, sembra, si deve, prima vedere qualcosa, poi prenderne coscienza e, solo dopo, la si può imparare e conoscere. Di fatto né la pratica di Maud Robart né il termine Oida possono essere tradotti nelle linee orizzontali di modelli teorici di apprendimento: non insiemi, non diagrammi di flusso e non linee evolutive; Oida dice: «So, e il mio sapere porta il proprio seme come un frutto».

Quindi, tre indicazioni: Oida indica la strada dell’esperienza come base per la conoscenza; aggira i pregiudizi legati alla presunta sequenzialità lineare dell’apprendimento e della conoscenza; ci offre l’origine, il seme del conoscere, come dinamico: non un’esperienza del passato cui fare riferimento o un cassetto dal quale scegliere fogli, ma una radice danzante, da cui una conoscenza danzante per attingere alla quale bisogna proprio partecipare.

Eppure, in tanti preferiamo contare quasi senza riserve sulla scrittura (o sulla lettura) per assicurare sul terreno del presente il fatto vissuto, scegliendo di non avere fiducia nella nostra capacità di dimorare saldi nell’esperienza. In molti casi della nostra vita, la realtà di un vissuto è giustificata solo se ne esiste una minuziosa documentazione. E può persino sembrare utile e giudizioso descrivere un’esperienza ancor prima di averla vissuta. Ma questa anticipazione riduce la vita ad essere niente più che un accessorio dei documenti che ne attestano l’autenticità. In conclusione, di questo paradosso culturale, non possiamo più annotare nulla di un avvenimento da nessuna parte senza ucciderlo ogni volta un po’ o tutto.

Quando siamo nel suono, nell’ascolto, nell’oralità[4], nella trasmissione diretta e nel lavoro con Maud Robart, è inutile, inadatto, pietrificare l’esperienza in vista di una qualche conoscenza, perché la base qui è la scioltezza (apertura, precisione, libertà) attraverso la quale, una volta abbandonati gli scivoli di una comprensione lineare, se ci mettiamo tranquilli, ci ritroviamo di colpo nel bel mezzo di

OIDA.


[1] Il tempo presente del paradigma politematico dello stesso verbo è orao (vedere) e rinvia alla parola greca ora, che significa attenzione.

[2] Vid ci porta direttamente alle fonti sanscrite di sapere: Veda. I Veda sono anche le scritture sacre che, secondo la tradizione induista, hanno un’origine divina diretta. Il significato di questa parola è “ciò che è stato visto, realizzato”.

[3] Anche il tedesco si appoggia alla radice vid per il verbo wissen (sapere), le radici esperienziali della parola tuttavia non sono più evidenti in questo significato.

[4] La tradizione orale, anche quella all’origine della cultura europea, nelle sue multiformi espressioni, ci ha sempre invitati a meditare sulla parola pronunciata e sul suono in quanto struttura sensibile e vibrante del cosmo stesso.

 

Laura Casinelli